La storia di DropBox e del growth hacking

La storia di DropBox e del growth hacking

Ci sono aziende che con la pandemia in corso, hanno potuto aumentare i loro fatturati. E ad esempio il caso di Dropbox

Ci sono aziende che con la pandemia in corso, hanno potuto aumentare i loro fatturati. E ad esempio il caso di Dropbox. Per la prima volta da quando si è quotata in borsa, nel lontano 2018, infatti la società di “cloud storage” ha riportato un fatturato di 455 milioni di dollari, il 18% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La ragione di questo incremento non è certo difficile immaginare.

Con tantissima gente in più costretta a ricorrere allo smart working, è cresciuta esponenzialmente anche la necessità di archiviazione remota per poter condividere documenti e file con i propri colleghi.

La crescita delle conversioni

L’amministratore delegato di Dropbox osserva che sono cresciute le “conversioni”, ovvero i passaggi dagli account gratis/trial a quelli a pagamento, così come gli acquisti diretti di abbonamenti premium. 

Gli abbonati totali sono 14,6 milioni: nello stesso periodo dell’anno scorso erano 13,2 milioni, e a marzo 2018 11 milioni. Un’ennesima dimostrazione di come il “coronavirus”, stia cambiando le abitudini di moltissime persone, causando importanti alterazioni agli equilibri globali, ponendo alcune aziende e interi settori sono in grave difficoltà, e permettendo ad altri una crescita notevole di fatturato.

Uno strumento di uso comune

Ormai moltissime persone hanno aperto un account di Dropbox, e lo usano quasi del tutto inconsapevolmente. È li, in sottofondo, che fa il suo lavoro e ci semplifica la vita quotidianamente. Ma non è sempre stato così.

Quando è nata, nel 2007, infatti, Dropbox non era né la prima piattaforma di cloud storage, né la migliore in circolazione. Esistevano aziende molto più grandi ed affermate, che già da diverso tempo offrivano soluzioni simili. Esistevano soluzioni “enterprise”, offerte dalle grandi aziende, e allo stesso modo, alcune startup, avevano già iniziato ad offrire servizi simili a prezzi molto competitivi.

Uno dei concorrenti già affermato era ad esempio, “Box”, azienda fondata nel 2005 e quotata alla borsa di New York

Stanchi di scambiarsi file sulle chievette USB

Drew Houston e Arash Ferdowsi, studenti del MIT, hanno avuto l’idea di Dropbox, perchè erano stanchi di scambiarsi file utilizzando le pennine USB. L’idea di questi due studenti piacque molto a “Y Combinator” (il più importante acceleratore di startup al mondo) che diede loro aveva dato una possibilità e un piccolo investimento di 15.000 dollari per sviluppare e testare l’idea.

Come ogni startup, anche Dropbox nei suoi primi anni di vita ebbe un problema abbastanza diffuso, quello di  riuscire ad acquisire nuovi utenti e farlo al più basso costo possibile. Il team di Dropbox tentò in questo periodo soluzioni di ogni tipo, compresa pubblicità su Google. Ma i costi erano davvero troppo elevati, alcune stime dicono che Dropbox arrivava a spendere fino a 300 dollari per ogni utente registrato.

Ovviamente ciascuno di noi è in grado di comprendere facilmente che se un servizio che viene venduto a partire da 99 dollari l’anno, ha un costo di gestione di trecento dollari ad utente, quel business non è assolutamente sostenibile, l’azienda doveva essere chiusa.

Il growth hacking marketing

A salvare la situazione intervenne un personaggio particolare Sean Ellis, l’uomo universalmente riconosciuto come il padre del “Growth Hacking marketing”. Un termine che oggi suscita suggestioni particolari, come se fosse una sorta di alchimia, in cui si adottassero magie e trucchi particolari, per far ottenere ad un’azienda dei risultati di business.

In verità, al di la della leggenda, la strategia di “Growth Hacking”, altro non è che un processo di sperimentazione rapida sul prodotto e sui canali di marketing che consente di trovare il modo più efficiente per far crescere un business. Il growth hacking avviene quando tutto il team lavora per consegnare valore al cliente con un prodotto o servizio.

Sean Ellis

Nel caso di Dropbox, Ellis decise di testare un sistema che oggi conosciamo molto bene e chiamiamo “referral program”. Ossia, ogni utente già iscritto alla piattaforma avrebbe avuto la possibilità di invitare altri utenti a aderire al servizio. In caso di iscrizione completata, a entrambi gli utenti coinvolti venivano regalati 500MB di spazio gratis sul loro account Dropbox.

La cosa funzionò e Dropbox passò in 15 mesi da 100.000 utenti a ben 4 milioni di utenti, dando il via alla crescita incredibile che lo ha portato a diventare il colosso hi-tech da 10 miliardi di dollari che tutti oggi conosciamo. Un referral program è un processo per stimolare il passaparola di un prodotto o servizio basato su un concetto molto semplice: dare degli incentivi agli utenti ogni volta che invitano loro amici a utilizzare il prodotto.

Il referral

La pratica del referral è oggi considerata quasi una “best practice” soprattutto in alcuni settori e il tipo di incentivo varia da caso a caso: c’è chi offre funzionalità premium del prodotto (come nel caso di Dropbox appunto ed Evernote), chi offre un buono sconto (come accade per Uber e JustEat) e chi arriva a offrire addirittura del denaro (come succede per PayPal e Bet365).

Sotto la sconvolgente mano di Sean Ellis, oltre a Dropbox, sono passate moltissime socirtà, che oggi sono veri e propri colossi mondiali, come Facebook, AirBnb e Amazon. Ellis è anche, fondatore della community GrowthHackers.com, che conta la bellezza di 8,5 milioni di utenti.